Candy Candy debuttò in Italia nel Marzo del 1980. Fu distribuito dalla Olympus Merchandising su un circuito di emittenti locali che coprivano più o meno l’intero territorio nazionale.
Fu trasmesso in due blocchi (che all’epoca chiamavamo “prima serie” e “seconda serie”).
Il primo blocco terminava con l’episodio 65 “Un’allegra infermiera” trasmesso verso la fine di giugno del 1980, il secondo blocco iniziò verso la fine di settembre dello stesso anno e terminò nel gennaio del 1981.

Su Canale 5 approdò nella metà del 1982 dopo due cicli ininterrotti di repliche sulle emittenti locali. Si può ben dire che Candy Candy arrivò su Canale 5 alla sua quarta visione.
Esiste un solo doppiaggio italiano della serie (tra l’altro eccellente), realizzato dalla Citiemme. E il famoso dialogo finale tutto italiano, in cui si modificavano alcune battute originali, e si fa dunque credere che Terence si lasci con Susanna, è quello originario, l’unico mai trasmesso in Italia. Non fu mai inserito successivamente da Mediaset come alcuni hanno scritto.
L’anime in Italia non fu mai censurato.
Il finale “tarocco”, con Candy che incontra Terence alla stazione, non riguarda la serie ma il lungometraggio tutto italiano “Candy e Terence” uscito al cinema nel 1981, e fu ottenuto rimontando furbescamente alcune scene poi ridoppiate per l’occasione. Non c’entra niente con la serie.
Il successo dell’anime non esplose dopo la messa in onda su Canale 5 (come scritto ovunque) ma fu immediato e straordinario: già dopo i primi episodi lo guardavano e ne parlavano praticamente tutti.

Dopo qualche mese dal debutto, anche TV Sorrisi e Canzoni le dedicò un lungo articolo illustrato, parlandone come di un fenomeno, e fu effettivamente il primo cartone animato trasmesso da emittenti locali e ricevere una certa attenzione della stampa (che di solito dava risonanza solo ai cartoni trasmessi dalla Rai).
Del fenomeno ne parlarono esperti, sociologi, pedagogisti. Ne parlò anche Antonio Faeti in un lungo articolo su Il Manifesto, nel Novembre del 1980 e dell’eloquente titolo “Di Candy Candy parlano tutti”.
In una puntata di Flash trasmessa nello stesso periodo, nel famoso gioco dei sondaggi, risultava il sesto personaggio in assoluto più amato dai bambini dell’epoca, con Mike Bongiorno stupito che si chiedeva chi fosse “questo Candy Candy”.
L’anime, almeno in Italia, rappresentò, in effetti, un vero e proprio fenomeno sociale, un punto di rottura rispetto a tutto quello che fino ad allora era destinato ad un pubblico infantile. I protagonisti avevano esplicite relazioni sentimentali. Ma anche il personaggio in sé incarnava il tipo di donna anti-disneyano per eccellenza, non in cerca di un principe azzurro, ma in cerca di un posto nel mondo conquistato con le proprie forze e con le proprie capacità.

Elementi che oggi possono apparire banali, ma che all’epoca erano del tutto inediti e rivoluzionari, soprattutto considerando il target a cui il prodotto si rivolgeva. Candy era un’orfana, ma non andava alla ricerca dei suoi genitori (ricchi) come ci si aspetterebbe da un cartone dove i protagonisti sono orfani, ma era alla perenne ricerca di una realizzazione personale. Veniva adottata da una famiglia ricchissima, ma vi rinunciava perché “voleva farcela con le sue sole forze“.
Il messaggio era modernissimo e arrivò forte e chiaro, visto il successo.
E fu un successo così straordinario che la Fabbri, annusando l’affare, si affrettò ad acquisire i diritti editoriali.
E per fare le cose in pompa magna, invitò nel nostro Paese le due autrici allo scopo di far “supervisionare” il lavoro dello staff di disegnatori e autori italiani scelti e incaricati per la produzione Made in Italy di storie e illustrazioni. Produzioni che, in quel periodo, invasero letteralmente le edicole e le cartolerie.
L’arrivo delle due autrici nel nostro Paese ebbe pure una certa risonanza sulla stampa e in televisione.
Candy Candy, pur piacendo tanto anche agli adulti era rivolto principalmente a un pubblico di bambini e preadolescenti, e lo dimostra il fatto che l’adattamento animato dal manga originale, questo sì rivolto a un pubblico più grandicello (tra i 10 e i 18 anni), sia stato parecchio “infantilizzato” e semplificato proprio per essere usufruito anche da bambini.
In Giappone la serie andò in onda settimanalmente per un arco di tre anni, e la produzione teneva conto anche del fatto che il pubblico di bambini agganciato con le prime puntate, sarebbe cresciuto insieme al cartone. Per questo le puntate del secondo blocco sembrano più “mature” nei dialoghi e nei contenuti rispetto ai primi episodi.

Molti inoltre non sanno che la serie era destinata ad avere più episodi, ma durante le vicende di Grey Town (che coincideva anche con la “rottura” definitiva con Terence) non presenti nel manga e realizzate per “allungare il brodo”, gli ascolti (che nel tempo comunque si erano abbassati) crollarono al punto che Tv Asahi chiese alla Toei di terminare la serie il prima possibile, per far posto a “Lulù, l’angelo tra i fiori”.
Questo spiega come mai gli episodi finali appaiono affrettati e inconcludenti.
Al di là delle note beghe legali sui diritti, per le quali non viene più trasmesso, Candy Candy è facilmente reperibile in rete. E a riguardarlo oggi appare terribilmente invecchiato, soprattutto dal punto di vista tecnico. Ha una buona regia, sostenuta da un doppiaggio nostrano davvero riuscito, ma certe situazioni, certe “coincidenze” forzate, la marea di episodi autoconclusivi che non aggiungono nulla alla trama principale, lo fanno risultare un tantino indigesto a un pubblico moderno. Anche la veste grafica, seppure in linea coi prodotti equivalenti dell’epoca, oggi appare davvero molto datata.
Se proprio ci si volesse approcciare per la prima volta a questo personaggio, consiglierei di gran lunga la lettura del manga, che è nettamente superiore alla versione animata. Anzi proprio leggendo il manga ci si rende conto del potenziale sprecato, se si pensa magari ad un adattamento televisivo diretto da un Dezaki, ad esempio.
Attorno a Candy Candy esiste tuttora un fanatismo davvero eccessivo tra alcuni, per cui quando se ne parla si fa a gara a chi “ne sa più a pacchi” e si tende a smentire ciò che viene scritto e a creare confusione, spesso anche con arroganza, come è già capitato in passato. Preciso dunque che, a parte le mie opinioni, qui presenti, ho scritto gran parte di queste informazioni facendo tesoro di fonti di prima mano.









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