Nei vari commenti o post che leggo sui social, viene spesso utilizzato il termine “telenovela” a scopo denigratorio: “Che brutta serie fatta male! Sembra una telenovela!”, “Ha una trama da telenovela!”
Nel sentire comune la telenovela è intesa e percepita come il prodotto audiovisivo più scadente in assoluto. Roba per gente di “bocca buona”, non colta, non raffinata.
Se si vuole, però, parlare di Dancin’ Days, la “telenovela” brasiliana del 1978 con Sonia Braga, bisogna, per forza di cose, mettere da parte questi luoghi comuni e questi (spesso giustificati) pregiudizi, perché Dancin’ Days è sì una telenovela, in tutto e per tutto, ma è anche molto di più. È qualcosa d’altro.

Dancin’ Days è un luogo televisivo dove il basso si intreccia con l’alto, dove la lettura psicoanalitica, la riflessione politica e l’analisi sociologica si fondono con il romanzo popolare più tradizionale.
Fu prodotta e trasmessa da Rede Globo nel 1978, scritta dall’ormai scomparso Gilberto Braga (riconosciuto in patria come un genio della narrazione televisiva) e diretta da Daniel Filho, poi diventato un importante regista cinematografico. In Brasile ottenne, all’epoca, un successo enorme, trasformandosi in un vero e proprio fenomeno di costume, tale da attirare l’attenzione dei distributori internazionali. Fu, infatti, venduta in circa 40 Paesi.
Nel 1978, “Dancin’ Days” fu anche oggetto di un articolo della rivista americana Newsweek nel quale si discuteva della sua enorme influenza nella cultura e nelle abitudini della popolazione brasiliana.
La telenovela non voleva, in effetti, solo raccontare una storia, ma voleva farsi veicolo di “istanze progressiste”:
Nel racconto, i drammi dei vari personaggi si intrecciavano con argomenti importanti che riflettevano la società brasiliana di quel periodo. Si parlava, dunque, di emancipazione femminile, di lavoro, di “patriarcato”, di salute mentale, si passava sotto la lente addirittura l’istituzione del matrimonio ma, soprattutto, si poneva in grande evidenza il conflitto tra le nuove generazioni che facevano proprie le istanze del ’68, e quella precedente, nata nella prima metà del Novecento. Si parlava, inoltre (e forse soprattutto) di psicoanalisi, se ne spiegava l’importanza, venivano divulgati concetti e significati, rimarcando certi nostri modi errati di pensare, o di vedere le cose. E si parlava anche di cinema (uno dei protagonisti era un aspirante regista), si discuteva di film appena usciti al cinema, si nominavano registi e movimenti cinematografici.
Il tema principale della storia era comunque quello dell’essere prigionieri, non solo fisicamente, come nel caso di Julia (la protagonista, che aveva appena scontato 11 anni di carcere), ma prigionieri delle proprie gabbie mentali: i vari personaggi apparivano “chiusi” ognuno in una propria prigione, che poteva essere tanto quella del vizio al gioco, quanto quella dell’amore possessivo, o quella delle convenzioni e via dicendo.

Dancin’ Days, vista ai giorni nostri, appare come un affresco iperrealista della classe medio-alta brasiliana della Rio de Janeiro di fine anni ’70. È un microcosmo formato da una trentina di personaggi residenti nel quartiere di Copacabana e che ruotano attorno alla gestione di una discoteca. Personaggi che non sono né buoni né cattivi, ma che agiscono sempre spinti da una qualche loro ragione, a volte condivisibile, a volte meno.
Personaggi talmente ben caratterizzati e talmente “umani” e realistici, che si finisce per amarli tutti, come si finisce per innamorarsi di Copacabana e della sua spiaggia, o di quelle canzoni brasiliane belle e struggenti che fanno da sfondo sonoro alla storia.
È un affresco calato nella realtà e nell’attualità brasiliana dell’epoca, reso ancora più realistico da nomi celebri dell’epoca che vi partecipavano in qualche episodio nel ruolo di sé stessi. Nel corso delle sue 174 puntate, la telenovela ha visto, infatti, sfilare decine di figure note del Brasile di quegli anni, tra attori, cantanti, giornalisti, scrittori, politici, ballerini, personaggi del jet set, tutti desiderosi di essere immortalati, anche solo come comparse, all’interno di questa “foto di gruppo” di fine anni ’70. Vi fu anche la partecipazione di Gal Costa e Nana Caymmi che si esibirono entrambe con delle canzoni eseguite dal vivo.

Cercando qua e là in rete, ho scoperto che la telenovela si doveva chiamare inizialmente “A prisioneira”, e doveva esserci un ristorante e non una discoteca a fare da collante alle storie, ma il successo travolgente de “La febbre del sabato sera”, cambiò le carte all’ultimo minuto.
Per la ricostruzione in studio della discoteca Dancin’ Days (dapprima chiamata “17”) gli autori presero direttamente ispirazione dalla Frenetic Dancin’ Days Discoteque di Copacabana. Raccontava, in un’intervista, il proprietario della discoteca: “Ogni venerdì e sabato circa tremila persone si accalcavano all’entrata. Molti di loro confondevano la telenovela con la discoteca, immaginavano di essere nella telenovela, e speravano di trovare Sonia Braga che ballava in pista”.
A proposito di Sonia Braga, all’epoca di Dancin’ Days era già un’affermata attrice di cinema e già una star tra il pubblico televisivo brasiliano, grazie alla trasposizione in forma di telenovela di Gabriela, romanzo di Jeorge Amado. Era pure nota a livello internazionale per “Dona Flor e i suoi due mariti”, film di enorme successo commerciale, uscito nel 1976, e anche questo tratto da un romanzo di Amado.
La presenza, nel cast, di un’attrice tanto ricca di talento e tanto carismatica, e l’intensità con cui ha saputo caratterizzare il personaggio di Julia, l’ex detenuta in cerca di un riscatto, hanno sicuramente alzato ulteriormente l’asticella qualitativa di questo strano prodotto televisivo, che vale la visione anche solo per godere della presenza e delle indubbie capacità recitative dell’attrice.
La telenovela era prodotta con i mezzi televisivi di 50 anni fa, con i tanti limiti tecnici ben evidenti ma, rispetto agli standard di prodotti simili di quell’epoca, era sicuramente all’avanguardia: girata non solo in studi televisivi, ma anche in esterno e in ambienti reali. L’enorme successo in corso d’opera faceva sì che la produzione godesse, inoltre, di un budget molto alto.

Dancin’ Days è un prodotto tanto tecnicamente vecchio, quanto intrinsecamente moderno nei suoi intenti narrativi. Un prodotto ancora sorprendentemente attuale. Un’opera televisiva colta, divulgativa, affascinante e complessa nelle sue infinite sfaccettature e nelle sue infinite chiavi di lettura, che meriterebbe di essere riscoperta, studiata, analizzata, perché, al di là dei limiti tecnici, e dei tempi dilatati della messa in scena (a cui comunque ci si abitua dopo qualche episodio), contiene in sé un qualcosa che la rende superiore e “artistica” nel senso più nobile del termine, un qualcosa che deriva, in primo luogo, da quell’eccellente scrittura “trasversale”, elaborata su diversi livelli, in maniera tale che potesse piacere sia all’intellettuale, sia al teenager, sia alla nonna casalinga.
Oggi risulta ancora godibile, seppure ci siamo ormai disabituati alla grammatica di quel tipo di produzioni. Ovviamente non si presta a un nevrotico binge watching perché concepita per essere fruita a cadenza giornaliera e a piccole dosi.
In Italia approdò sull’appena nata Retequattro di Mondadori, nell’aprile del 1982. Fu mandata in onda ogni giorno alle 14.00 (prendendo il posto de La Schiava Isaura, altro enorme successo internazionale di Rede Globo) con un ascolto medio di 4 milioni di telespettatori a episodio.

Ed è proprio l’adattamento italiano di Retequattro, l’unica vera pecca di quest’opera. Non so quanto i dialoghi siano fedeli, presumo che lo siano abbastanza, ma le voci spesso risultano non adatte. Il problema maggiore però emerge dalla sostituzione (dalla seconda parte della telenovela) dei bellissimi temi originali (Amanha di Guilherme Arantes, Copacabana di Dick Farney e Joao e Maria di Chico Buarque soprattutto) con due canzoni italiane che non c’azzeccano per niente, che distruggono il pathos di molte scene, e che diventano odiose nel risentirle in continuazione (quella della “campana del villaggio” specialmente!).







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