LO SCUGNIZZO

LO SCUGNIZZO” è un film stranissimo, anomalo, un po’ malsano.

Uscito nel 1979, era scritto e prodotto da Ciro Ippolito e diretto da Alfonso Brescia, ed era una sorta di “spin off” di quel genere poliziottesco di matrice partenopea, di grande successo, che di solito vedeva come protagonista Mario Merola. Il background produttivo era lo stesso, ma anche le atmosfere.

Fu prodotto, a mio avviso, per sfruttare la popolarità del piccolo Marco Girondino, che già si era fatto notare in un paio di quei film, ma sembrava anche cucito un po’ addosso alla brava Angela Luce, all’epoca (pare) compagna di Ippolito.

Il film racconta le disavventure del piccolo Gennarino e della sua madre adottiva Angela Lori, una ex-diva, ormai in declino, del varietà, anziana, ammalata, e poverissima, e che è costretta, insieme al bambino e a un paio di vecchi musicisti, ad esibirsi per le strade di Napoli per racimolare qualche spicciolo.

A un certo punto la donna si aggrava, e il bambino, per procurarsi i soldi per le medicine si caccerà nei guai, fino ad essere arrestato per omicidio e rinchiuso in un carcere minorile. Ma questo è solo l’inizio.

La cosa bizzarra di questo film è che passa da un registro a un altro senza lasciare il tempo allo spettatore di capire che film sta guardando. In alcune situazioni è comico-demenziale, in altre drammaticissimo, in altre è musicale, in altre ancora sembra voler essere un film di denuncia, in altre situazioni vuole essere anche felliniano, onirico, fino a risolversi, nel finale, in un poliziottesco alla Mario Merola, con gli inseguimenti degli scafisti e con la stessa, identica traccia musicale, utilizzata ogni volta nelle scene d’azione dei film precedenti di Brescia & Ippolito.

Sta di fatto che il film, nella sua, diciamo “varietà di registri”, sembra comunque tenere il ritmo perché è ricco di situazioni incalzanti, specie nella seconda parte.

È un film strampalato in cui emerge anche quella creatività folle e anarchica di Ciro Ippolito, che seppure in maniera goffa, sembra che in questo caso voglia essere “autoriale”, che voglia dire delle cose, e addirittura “denunciare”: dal disagio dei cosiddetti “scugnizzi” (costretti alla delinquenza e al lavoro minorile) alla malasanità. L’autore fa pure delle “critiche”, da me non ben capite, al cinema italiano dei grandi nomi e all’informazione, ma prende anche le difese degli artisti minori che (a quanto pare) all’epoca non avevano diritto né a una pensione, né alla sanità gratuita.

Ma si riserva anche dei momenti poetici, suggestivi, come la lunga scena del sogno, la più riuscita di tutto il film.

La Napoli che viene raccontata è quella di una città allo sbando, caotica, insidiosa, abbandonata a sé stessa, e viene raccontata “con un certo neorealismo, alla Pasolini” (leggete il virgolettato con la voce di René Ferretti), tra le strade, tra i vicoli, con le cineprese a spalla, che restuiscono una fotografia sporca, e con i passanti ignari che guardano curiosi dentro l’obiettivo.

Il malsano emerge soprattutto nel finale, quando il bambino entra nelle grazie di un potente boss del contrabbando, che nel racconto appare come un personaggio buono, carismatico, risolutivo. Un finale che sembra uno spot alla camorra.

Spero di non essere l’unico tra di voi ad aver visto questo film ed esserselo fatto anche un po’ piacere.

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